La cabala e il cavallo (1998)
Un’affinità morfologica tra “cabala” e “cavallo”, termini che comunque non condividono alcun campo semantico, costituisce probabilmente l’asse linguistico intorno al quale ruota la ricerca di Marco Schaüfelberger, scenografo e artista napoletano che ama farsi riprendere come “cavaliere armato”.
I suoi interessi per il grande racconto della cultura ermetica gli hanno fatto conoscere il pensiero di Raimondo Lullo, il filosofo catalano cui sono state attribuite opere di magia, astronomia e alchimia. Alle fascinazioni della sua arte della memoria e, soprattutto, alla sua interpretazione magico-simbolica dell’universo si ispira l’omaggio che Schaüfelberger gli ha dedicato con il bozzetto per un “monumento”- ora al museo delle Asturie- e un libro oggetto, in cui la forma tradizionale di trasmissione del sapere è rappresentata da un’immagine radiografica retroilluminata e da un esemplare drammaticamente inglobato in un blocco di gesso sottostante.
Nel kit Il piccolo cabalista, in cui la data costituisce un rimando autobiografico, ritroviamo - affiancato ad un’antica carta spagnola, l’11, che sta per il, fante - quel cavallino già alla sommità del “monumento” a Lullo, segno autoironico del viaggio intrapreso dalle culture utopiche alla ricerca dell’impossibile.
La dama dell’arancio, in cui l’artista ha voluto rappresentare simbolicamente un confronto tra due diverse attitudini culturali, è stata ispirata da una costruzione sacra molto nota nella cultura spagnola; di quest’ultima Schaüfelberger utilizza di preferenza segnali e messaggi.
In Odissea , un’opera realizzata con i materiali (marmo, legno, carta) prediletti dall’artista, si inabissano entrambi, il cavallino e il nostro sapere, sovrastati dall’inizio del poema omerico.
Un altro tipo di opere prodotte da Schaüfelberger negli ultimi anni è costituito da una serie di piccoli dispositivi di comunicazione. Tra essi, l’originale “fumetto” dedicato al
Principe di Sansevero, di certo il personaggio più suggestivo ed inquietante della cultura ermetica napoletana. Qui tre cartigli nautici racchiudono delle illustrazioni stampate in negativo, messe a confronto con un testo del poeta simbolista francese Arthurin Bertrand, dal titolo L’alchimista.
L’io del poeta dopo aver dichiarato che la sua arte si apprende “in due maniere”, provvede ad elencarne tre, recuperando così una più rassicurante indicazione numerologica; infine, racconta le peripezie della cultura ermetica: i libri prescelti sono non a caso di Raimondo Lullo.
Matteo D’Ambrosio


RECENSIONE CRITICA di ALESSANDRO CIAPPA

Scrittore
L’infanzia è senza parole. Darle espressione è certo azione notevole. Si può essere legati all’infanzia come ad un mondo ben fatto, come ad una condizione di eccellenza o, viceversa, vi si è uniti solo per il fatto di essere un atto mancato, un ricordo che, propriamente, non ritorna che nella forma di quanto è stato mancato, di quanto “è stato” ma per il suo mancare. Per quel che riguarda Marco Schaufelberger, egli è ascrivibile a questo secondo caso. Le sue opere sono piene di questo sentimento e ne è piena la sua vita, come se fosse rimasto incantato in quell’atto, in quell’atto -mancato- che lo costringe a ripetersi.
E’ nato morto poi il mio amico Marco, ed è questo un altro aspetto che lega la sua vita e la sua arte. “I miei quadri” mi ha spesso detto ironicamente “nascono poiché io sono morto. Artisticamente ho iniziato con l essere esposto nei musei e, tenendo conto che l’istituzione museale è un luogo di conservazione, il luogo post-mortem per eccellenza, ne devo concludere che posso ritenermi già morto!” Strano destino questo, riscontrabile altresì nella sua mirata produzione, nel suo produrre “quel tanto che basta”, quel tanto che “resta”, come dice.
Conobbi Marco Schaufelberger nel ’95 e l’incontro fu davvero spiazzante. Mi colpì, d’impatto, il suo volto, il suo sguardo, la nobiltà che ne traspariva. Passavamo, conoscendoci poi meglio, intere nottate a discutere. Si discuteva di tutto, da Caravaggio, suo primo amore, ai duelli all’arma bianca. E si dà il caso che Marco sia semplicemente irruenza e infanzia. Le sue opere ne trasudano, prese tutte in una certa leggerezza, tutte tese verso una delicatezza che le rende sottili, liriche, gentili, quasi invisibili. Sono fotogrammi, cose violente arrestate a un singhiozzo, strozzate a un pensiero, quali foto mosse ma che continuano a trasmettere l’idea di movimento, un fermo- immagine. Vi è poi il colore, la materia stessa del colore, sua ossessione, ove gli occhi incontrano azzurri trasparenti senza tempo, come in alcuni suoi piccoli affreschi, o rossi terrosi, verdi nettissimi, stranieri, viola lividi.
Ma è difficile parlar di Marco in termini semplicemente artistici. Vi è di più in lui. Vi è un sapere che è immediatamente un fare, un’immediata esperienza, una sorta combinatoria di più campi disparati, in cui la scultura insiste nella pittura, la fotografia investe la scenotecnica, l’arte della cartapesta incontra il disegno. E tutto questo va, in primo luogo, considerato come un fatto d’esperienza, nel senso che vi appartiene come sua condizione. All’idea segue immediatamente un fare, o meglio: è l’idea che, per essere tale, deve conseguire un fare, assumerne le forme. Ciò l’ho potuto avvertire lungo gli anni della nostra amicizia ed è quanto egli stesso più volte mi ha detto. Marco Schaufelberger è davvero un uomo d’altri tempi, un traduttore in esperienza, un fabbricatore, un costruttore che traduce il pensiero in gesto, in vita, è una forma di coazione . . . quanto è detto è fatto. E’ in questo senso che Marco, ben lungi da votarsi a certa puerilità superficiale, è piuttosto come colto, compreso in un movimento d’infanzia, in quella serietà del gioco che sa conseguire leggerezza, in un saper accogliere il dolore e la gioia senza ripiegamento o narcisismo. Quando si ha la dote di questo sguardo, quando si ha negli occhi lo sguardo che sa mirar lontano, quando si ha coraggio nel saper farsi carico del dolore senza piegarsi, così come della gioia senza votarsi alla semplice euforia, quando, dico, tutto questo appartiene “all’angolo d’incidenza” di una vita, allora l’opera stessa consegue la forma di una necessità, in un compiersi al di là del semplice dovere, al di là dell’idea stessa di produzione. Le produzioni “mirate” lo testimoniano, e lo testimonia, in un altro senso la sua idiosincrasia verso il concetto di arte, contro l’idea di produzione artistica di cui, a suo dire, farebbe volentieri a meno. Tale idiosincrasia va al di là della lamentosa retorica dell’artista che disprezza le sue opere. Il fatto è che Marco si ritrova nelle sue opere perché è “preso” dalla sua infanzia, si ritrova, ma catturato da una necessità che non è dovere, teso a ripetere, a ripeterne l’atto. Per questo il suo concetto di produzione, di espressione, è limitato al “minimo indispensabile”.
La prima sua opera che vidi fu una scultura, La dama del naranjo, ora esposta al Museo delle Belle Arti delle Asturie. Vi era rappresentato un libro sul quale posano mani aperte, sottilissime, una rivolta verso il libro, l’altra con il palmo verso l’osservatore. Su quest’ultima, a sua volta, sta un’arancia. Mi colpì l’innocenza dell’opera, i colori netti dei vari elementi, le mani soprattutto, bellissime, l’una aperta come richiesta, come una stanca domanda, l’altra presa quasi nell’atto di una carezza piena di nervosismo e pietà.
Le cose che Marco mostra sono oggetti solitari, innocenti perché soli, applicati alle tele come ospiti, come osservatori, testimoni, sullo sfondo di cieli e campi di grano, chiodati a terre laviche, a rossi brucianti, segnati dallo spavento. E poi la presenza dei cavallucci a dondolo, di cui fa molto uso, anch’essi invocanti innocenza, testimonianti infanzia, sono vie di fuga in cui si contraggono molti dei suoi quadri. E così i colori attenuati delle ultime opere, i bleu scavati dal bianco per i cieli atemporali, il giallo languidissimo per i campi appena sussurrati all’orizzonte, o gli angioletti che posano sulle tele come i resti di una precedente deposizione.
Tutto questo dall’infanzia parte e all’infanzia vorrebbe tornare se non fosse che, in questa sorta di giro di posta, questo tipo di messaggi, tali lettere scritte con l’inchiostro della vita, ben al di là del volere, ci perdono di vista, quali cose che solo mancando, smarrendosi, arrivano a destinazione.


Critica ai lavori di Marco Schaüfelberger (1997)

Se tra le finalità dell’esperienza artistica c’è anche quella di impressionare il fruitore, non c’è dubbio che l’eleganza dei valori plastici delle creazioni di Marco Schaüfelberger si impongono all’attenzione per le forti sensazioni che suscitano. La dimensione plastica è ottenuta dalla vivacità e dalla scelta decisa del cromatismo denso e compatto che rivela nelle sue tonalità brillanti. La luce, posando su queste figure, accentua la forza espressiva e il dinamismo spirituale che le anima.
Tra le altre sollecitazioni, le opere di Marco Schaüfelberger, per i loro contenuti naturalistici suggeriscono il confronto con le esperienze artistiche barocche, evocando ricordi e sogni che alimentano le nostre culture e il nostro mondo interiore e ricreano quel supporto suggestivo con l’opera d’arte e il suo massaggio.

Vincenzo Pacelli


Diario di poeta e mare : uno sguardo lontano.

(2003)

Una geometria di colori netti ci accompagna nelle prime opere di questo autore riccamente sfaccettato, che agisce nei più disparati campi dell’arte visiva,dalla scenografia alla pittura,
dalla fotografia alla scultura .
La commissione dei materiali crea delle efficaci suggestioni , richiamando immagini marine e accostandole al gioco o alla decorazione più classica.
In particolare proprio il richiamo alle figure dell’arte classica partecipa delle coraggiose sperimentazioni,nelle composizioni ricche di un’efficace simbologia,che si culla nella brillantezza delle tonalità più calde-spesso raccolte nell’arancio-e più fredde-domina la scena proprio il blu dell’orizzonte marino-accostate senza incertezze.Si resta fortemente colpiti dalla sfacciata e insostituibile presenza nell’immaginario dell’artista del mare,che ci trasporta dolcemente alle sue radici partenopee e allo stimolante legame con il mondo marino.
Ricorre,inoltre,nei suoi lavori,la volontà che l’attenzione si concentri su un oggetto, semplice,a volte appartenente alla dimensione più quotidiana:per questo viene inserito in una luminosa cornice cromatica che ne esalta la funzione simbolica nel migliore dei modi.
Uno dei miei lavori preferiti è “da de chirico a mia madre…1 metro e 40”, in cui l’autore suggerisce con figure semplici e di particolare effetto le immagini della sua mente.
La ricchezza delle proposte di Marco Shaufelberg deriva soprattutto dalle vivacissime attività cui nel corso della sua vita si è dedicato.Chiarissima,d’altra parte,l’influenza esercitata dalla fotografia e la scenografia sulle sue tele.

 

 

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